Implicazioni di una totalità: Fotogrammi per i Film di Joseph Bernard

Untitled drawing, 4/1974

Implicazioni di una Totalità: Fotogrammi per i Film di Joseph Bernard
di Phil Coldiron, in Cinema Scope 63

Nel decennio che va dal 1975 al 1985, l’artista visivo Joseph Bernard ha completato oltre cento film in Super 8mm. Frustrato dalla mancanza di fondi, materiali e attenzione, si è ritirato dal cinema e, in definitiva, dalla produzione pubblica d’arte in generale, nonostante sia rimasto nell’insegnamento al Detroit’s College for Creative Studies, andando in pensione nel 2007 come professore emerito. Il cinema sperimentale americano è considerevolmente più povero sia per la brevità che per l’oscurità della sua carriera. Fortunatamente, questo problema potrà essere ora rettificato grazie alla pubblicazione in Blu-ray di Prismatic Music, una raccolta di quaranta film di Bernard.

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Otto anni fa, B. Kite descrisse, in queste pagine, la riscoperta del cinema di Jacques Rivette come “un continente sommerso [che risale] improvvisamente in superficie”; il lavoro di Bernard non comprende forse un continente – le sue preoccupazioni sono troppo piccole o troppo vaste: un arcipelago o una costellazione – ma il suo riemergere è indubbiamente “un evento della madonna”.

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Joseph Bernard udì il nome di Stan Brakhage quando vide il suo lavoro per la prima volta: nel 1969, mentre visitava la Cummington Community of the Arts come studente borsista, il pittore e cineasta Abbott Meader gli mostrò Mothlight (1963). Chiese di poter vedere il film una seconda volta, poi una terza. Già l’anno seguente, Bernard studiava con Brakhage – così come con il pittore Ray Yoshida e con il fotografo Ken Josephson, entrambi influenze significative – alla specialistica di belle arti della School of the Art Institute of Chicago.

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L’invenzione chiave nei film cameraless [ovvero realizzati senza una macchina da presa, N.d.T.] di Brakhage, di cui Mothlight è giustamente il più conosciuto, è la procedura dialettica attraverso cui la negazione del fotogramma in un primo momento, porta in seguito a un aumento incredibile della sua potenza. Ovvero, rimuovendolo durante la produzione – colorando o incollando direttamente sulla pellicola senza curarsi delle linee tra i fotogrammi – Brakhage crea film in cui il fotogramma diventa l’elemento formale dominante. Si impone su un flusso di materiali, organizzandolo per proiezioni a 18 o 24 fotogrammi al secondo. Piuttosto che replicare un ritmo del mondo, il film esprime il suo. Questa organizzazione ritmica è la soggettività, il punto da cui parte Brakhage nel suo progetto didattico per liberare il visuale dalla forma soffocante del linguaggio (per esempio, potrai finalmente vedere tutte le ombre che tu osservi realmente in un prato). La storia recente ha provato ampiamente quanto fosse fallimentare questo grande progetto, almeno nel suo aspetto utopico: lasciando in disparte il numero considerevole di sviluppi formali ideati da Brakhage che sono strati assimilati interamente dall’odierno linguaggio visuale, resta il fatto che non si riesce a curare questi film dal linguaggio che li infetta. Comunque, fra i registi statunitensi, solo Griffith, Chaplin, Cassavetes, Frampton, e Markopoulos hanno fatto di più per espandere le possibilità formali disponibili al cinema.

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I film di Bernard funzionano prendendo questo senso amplificato del fotogramma per restituirlo al processo produttivo: singoli fotogrammi e riprese brevi (ad esempio scrosci di durata da due a sei fotogrammi che contengono movimento nonostante mantengano l’esplosione visiva del singolo fotogramma) sono in seguito sottomessi a un montaggio meticoloso. Il risultato è un fotogramma presente tanto energicamente quanto quello di Mothlight o di qualsiasi film dipinto a mano, ma talmente sovradeterminato che diventa qualcosa di altro rispetto a una forma di soggettività; anziché l’organizzazione ritmica, Bernard ottiene la libertà poliritmica.

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La storia della poesia è quaranta volte più lunga di quella del cinema; quella della pittura, quasi duecento volte. Questo spiega la relativa assenza di ansia da parte dei cineasti rispetto alle loro influenze? Con un’arte così giovane, è facile prendere e scegliere dalle forme e sensibilità precedenti, sia dentro che fuori dal cinema (il vantaggio dello statuto dei film in quanto “+1” delle arti, ossia ciò che si prolunga istantaneamente da tutto il lavoro estetico che li ha preceduti). Bernard rivela di non avere ansia riguardo l’importanza di Brakhage sulla sua concezione del cinema; è cosa leggera e meravigliosa incontrare uno studente così sicuro e generoso.

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Il cinema è una forma di impressionismo – dopotutto nacque nel momento in cui questo stile pittorico aveva raggiunto le sue vette, e grazie a Bazin, sembra improbabile che i due vengano mai separati completamente. La sua impressione è automatica: la macchina, in mancanza della memoria del pittore, deve lavorare con assoluta velocità. Ma quindi può esistere un vero espressionismo cinematografico? I tedeschi e forse qualche colorista della tarda Hollywood classica ci sono andati vicino, ma la distanza anche fra questi lavori e quelli degli espressionisti in pittura, in particolar modo gli espressionisti astratti, è considerevole per il semplice fatto che la narrazione drammatica, la costruzione di un mondo richiede che tutti gli effetti siano ricondotti a una chiara radice psicologica. I film di Bernard non si interessano di psicologia, e così sono in grado di ottenere qualcosa di simile a un effetto totalmente cinematografico.

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Nel suo apprezzamento a Variant Chants (1983) scritto per il piccolo catalogo che accompagna Prismatic Music, la cineasta Mónica Savirón invoca gli espressionisti astratti Joan Mitchell (“carica emotiva di… pennellate”) e Jackson Pollock (“colate caotiche di texture accumulate”), così come i loro contemporanei nella poesia, in particolare Frank O’Hara e le sue “associazioni percussive”. Nonostante abbia lavorato in relativa reclusione a Detroit, Bernard potrebbe essere effettivamente il cineasta che ha portato più lontano nel cinema i vari stili della scuola newyorchese.

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Se la forma dei film di Bernard derivano più chiaramente da quelli di Brakhage e dai dipinti degli espressionisti astratti, la sua sensibilità è quantomai vicina a un altro dei poeti di New York, James Schuyler, che scrisse di: “Un giorno da niente pieno di / selvaggia bellezza”.

Come Schuyler, Bernard è uno straordinario colorista del quotidiano, capace di mantenere un equilibrio visivo non solo dentro il fotogramma, ma lungo tutto il film. Ogni film ha un colore dominante – la luce bianca filtrata dalla tenda negli spazi domestici di Chamber (1977), le macro-astrazioni color crostata di ciliegie in Ritual (1979), il blu crepuscolare che mantiene Night Mix (1982) legato al giorno. Questi colori dominanti sono accentuati dalle manipolazioni estensive di Bernard, attraverso la pittura, l’inchiostro, il candeggio, i graffi, etc. che conferiscono i suo “chiaro particolare” al suo “verde violento”. (In certi casi, come in Night Mix, la manipolazione stessa fornisce il colore dominante e la fotografia riempie la tavolozza).

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L’esempio più chiaro dell’uso strutturale del colore di Bernard è in Eye Reels (1980), che agisce nello spazio negativo lasciato dal ristagnare del rosso nei vestiti di una performance di danza irlandese. Schuyler una volta scrisse del “bianco ostruito dal blu” in Square White di Paul Burlin. In Eye Reels Bernard rappresenta un mondo ostruito dal rosso, pieno di piacevoli tonalità naturali – bianche, verdi, marroni – che vogliono disperatamente per l’eccitazione che solo il rosso può avere.

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Eye Reels è anche degno di nota per essere l’unico film di Bernard a fare un uso significativo del found footage: si apre con immagini palpitanti di un’esplosione nucleare e di quella che sembra essere una manifestazione per i diritti civili. L’evitare di fare uso di found footage è in qualche modo sorprendente dato il carattere collagista dei suoi film (e i collage veri e propri che ha realizzato lungo la sua carriera, molti dei quali figurano nei film), ma la verità è che preferisce la sensibilità che contrassegna gli oggetti ritrovati agli oggetti stessi.

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Questa sensibilità – la sensibilità di Bernard in quanto fotografo – è di un disinteresse eccitato. In qualsiasi momento, lui potrebbe filmare qualcos’altro, ma non lo fa, sta filmando questo. Tale sensibilità deriva dalla convinzione che tutto possa essere trovato bello se osservato opportunamente. Non si tratta di degradare il bello trovandolo passivamente dovunque si guardi, si tratta piuttosto di un coinvolgimento attivo con la nozione stessa di bellezza naturale, un coinvolgimento che dipende dall’intricato montaggio di Bernard per raggiungere la sua piena espressione: non è interessato a presentare semplicemente delle sembianze, è alla ricerca delle relazioni armoniose che compongono la bellezza perfetta del mondo intero. Uno zoom out nervoso da un uomo che cammina attraverso un paesaggio desolato potrebbe non essere bello in sé, ma collocato com’è in Ritual – come il momento in cui la stretta concentrazione del fare cinema su un tavolo [tabletop filmmaking nell’originale, N.d.T.] si apre finalmente al mondo – guadagna un umile splendore.

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Quindi la bellezza dei film di Bernard risiede nei loro ritmi, e i loro ritmi sono misericordiosamente lasciati liberi di qualsiasi impegno col suono, in quanto tutti i suoi lavori sono muti. In questo periodo in cui i programmi di film sperimentali in giro per il mondo annegano nelle colonne sonore che esistono solamente per scongiurare il peso del silenzio, Prismatic Music offre la più che necessaria rettifica: montare con vera sensibilità ritmica e inventiva non necessita della piacevole illusione sonora di sincronismo.

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Così come i film di Jonas Mekas, quelli di Bernard sono una sorta di diario muto. In entrambi i casi, c’è in ballo la questione di che sapere può apportare il diario muto. Contro il “ho fatto questo, ho fatto quello” caratteristico del lavoro di Mekas – lavoro che, nei suoi momenti migliori, risulta estremamente commovente per la sua sensibilità verso quei momenti di sguardi accennati nei quali un volto svela finalmente i suoi segreti – Bernard si interessa in maniera minore dell’aspetto documentario, lasciando la possibilità che in futuro uno spettatore sappia che la tal cosa è avvenuta. Dove Mekas costruisce momenti documentari mentre aspetta pazientemente il momento per un gesto artistico, Bernard vede l’arte in continuità col mondo: ovvero, i giorni vuoti della vita quotidiana sono, molto semplicemente, la materia dell’arte, se si è disposti a elaborare le relazioni fragili e sottili che attraversano tutto. I suoi sono film che assumono la posizione critica di rifiuto di qualsiasi possibilità di contenuto isolabile.

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L’aspetto documentario in Bernard è quanto meno disinteressato nei suoi film-ritratto, che includono sia persone – sua madre (A.B. Portraits, 1978), o sua figlia (JSB at 9, 1978), un saggio quasi nauseato sul problema dello sguardo maschile sulla propria figlia) – che luoghi, la cui scala oscilla tra città (Provincetown Pieces, 1979) e casa (620 Commercial, 1980). La sua attenzione resta rapida come sempre, ma queste sono le rare circostanze in cui alla domanda “Di che tratta?” la risposta è immediatamente disponibile.

Nondimeno le figure umane compaiono in quasi tutti i film di Bernard. Il loro aspetto è solitamente quello di film di famiglia: poiché sono spesso amici o parenti, sono in grado di comportarsi in modo “naturale” in presenza della macchina da presa, riconoscendola come un’estensione di Bernard stesso. Di nuovo, l’effetto è più vicino alle uscite amicali che riempiono le bobine di Mekas rispetto alle figure in posa che si possono trovare nei film di Brakhage, oppure il poltrire underground dei film di Ken Jacobs, Jack Smith, o dei fratelli Kuchar.

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L’ultimo film di Bernard, Her Moves (1985), segna un cambiamento decisivo rispetto ai film che lo hanno preceduto. Qui, infine, compare la performance: una dozzina di donne svolgono ciascuna un compito per la macchina da presa – portare a spasso un cane, suonare un violoncello, eseguire un servizio tennistico, danzare e, forse nel caso più misterioso, comparire in un film. Si avverte un’impressione di Muybridge al contrario; avendo impiegato un decennio a scomporre e ricomporre il mondo per dare risalto ai suoi rapporti con la massima chiarezza, Bernard rivolge ora la sua attenzione al movimento in quanto tale, consentendo il ritorno di un movimento illusorio dentro l’immagine e mantenendo al contempo una generale qualità ritmica. È il suo film più strano, più apertamente politico, eppure il più convenzionale.

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Un’altra figura è da prendere in considerazione: quella di Bernard stesso. I piaceri dell’autoritratto accidentale hanno a lungo sostenuto l’avanguardia americana, e Bernard, con i capelli fluenti e il petto ampio da quarterback tipicamente americano, compare nei propri film. Viene mostrato quasi sempre al lavoro, mentre filma il suo riflesso, oppure seduto alla moviola. I cineasti sperimentali di oggi sembrano contenti di rimanere dietro la cinepresa, segnalando così il fatto che – al massimo – vivono i loro film attraverso mezzi simbolici. La sensibilità che porta a un autoritratto cinematografico più diretto, come quella di Anne Charlotte Robertson, oppure, di nuovo, di Mekas, sembra essere slittata comodamente negli spazi digitali di Instagram e YouTube.

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La svolta cinematografica di Bernard, Chamber, si apre su un’immagine della cinepresa riflessa in un dettaglio della finestra, incorniciata da Bernard, la quale funge da espediente come il vaso di Stevens [riferimento alla poesia di Wallace Stevens Anecdote of the Jar, N.d.T.], un oggetto dalla gravità talmente forte che attira qualsiasi cosa nella sua orbita, finanche lo spazio del film – la casa famigliare di Bernard, con i suoi ninnoli, foto (Maya Deren infesta il film attraverso un fotogramma da Meshes of the Afternoon [1943]), radiografie, cani, giardini innevati, lampadari, bambini, camere da letto, etc. – sembra vivere dentro questo oggetto artistico.

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Rosalind Krauss, Grids, in October, volume 9: “In senso spaziale, la griglia afferma l’autonomia del regno dell’arte. Appiattita, geometrizzata, ordinata, è antinaturalistica, antimimetica, antireale. È come appare l’arte quando volta le spalle alla natura”.

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Bernard adotta ciò che Krauss vede come l’uso modernista della finestra per mano dei simbolisti – “la finestra è esperita contemporaneamente come trasparente e opaca ” – ma ne storce l’uso non per rimarcare la distanza fra arte e vita, bensì come corollario formale nel mondo per le meccaniche moderniste della sua arte.

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Come evidenziato dall’immagine chiave di Chamber, Bernard comprende perfettamente la finestra nella sua dimensione opaca, ovvero la finestra come uno specchio. A volte introduce specchi reali, in certi casi usandoli per dividere a metà l’inquadratura, creando così una visione a 360° sulla superficie piana dell’immagine. Altre volte filma le finestre stesse in modo opaco, sia attraverso l’uso dell’illuminazione o della prospettiva. In entrambi i casi, l’autonomia dell’arte che introduce la griglia viene rielaborata finché non si dissolve in un’armonia naturale; gli effetti estetici della griglia restano in vigore, ma l’arte, nella sua autonomia, si è rivolta ancora una volta a fronteggiare in maniera diretta la natura.

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La griglia appare nei film di Bernard anche in forma letterale, più comunemente come supporto ai caratteri dei suoi titoli e della sua firma, che serve efficacemente da compendio come il “by Brakhage” grattato a mano o il logo HF di Frampton, con la sua compenetrazione di linguaggio e immagine.

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Oltre alle finestre/specchio e alle griglie, il terzo oggetto feticcio di Bernard è il dispositivo geometrico: il righello, il compasso o il goniometro. Questi oggetti compaiono ripetutamente nei suoi tabletop films e sono gli unici simboli che compaiono nel suo lavoro, sebbene abbiano anche un fine ritmico, consentendo un gioco piacevole fra curve e linee (Ritual, Film for Untitled Viewer (1983), Variant Chants).

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Krauss cita il commento di Mallarmé secondo cui la finestra è il “segno con cui si potrebbe… proiettare la cristallizzazione della realtà nell’arte”. Per Bernard il dispositivo geometrico segnala il suo potenziale per l’arte: misurare la differenza all’interno dell’insieme che è la natura.

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Il suo strumento per conseguire ciò, come ho detto, è il ritmo libero e la sua capacità di stabilire nuove relazioni cinematografiche. I film di Bernard non seguono il principio per cui ogni immagine deve essere correlata a quella precedente o successiva; invece, nella loro rapida apparizione e scomparsa, lasciano immagini residue sia mentali che percettive, immagini che lavorano contro la logica dell’accumulo lineare del cinema per costruire reti di relazioni in cui ogni punto (immagine) contiene un potenziale infinito.

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Gilles Deleuze, Cinema 1:”L’immagine mentale non deve accontentarsi di intrecciare una serie di relazioni, ma deve formare una nuova sostanza”.

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Bernard realizza qualcosa di simile alla creazione di questa nuova sostanza cinematografica in Variant Chants, il più barocco dei suoi tabletop films, che descrive come una “danza del derviscio totalizzante”. Traboccante di immagini strane – immagini tratte da riviste a tema marittimo sono intrappolate dietro righelli cartografici; la luce si muove attraverso e attorno a oggetti di plastica filmati in primi piani estremi; riprese della natura attraverso lenti prismatiche diffrangono i bordi degli oggetti lungo lo spettro cromatico dell’arcobaleno – e tra le più intricate pitture e inchiostrazioni della sua filmografia, impossibile parlare di Variant Chants come di un film di qualsiasi cosa. In esso Bernard ha trovato una forma filmica capace di catturare il mondo nella sua piena complessità; è semplicemente, indivisibilmente, così.

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Il complemento all’espansione di Variant Chants si trova nel compatto Ritual, un’opera oscura e cultuale in cui il sopracitato rosso ciliegia brilla fuori dalle tenebre, illuminato a volte anche da diverse direzioni (il rituale potrebbe essere quello di Orfeo o Dante). Qui Bernard fa un uso significativo del suo quarto tropo visivo: lettere filmate in primo piano, rendendole puramente grafiche – le curve delle lettere sembrano radiose, emettono un bagliore arancio echeggiato dalle braci di un fuoco che appare verso la fine di questo breve film.

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Il terzo capolavoro di Bernard, Film for Untitled Viewer, mette alla prova le capacità ritmiche e grafiche della parola scritta. Indirizzato a uno spettatore che è contemporaneamente idealizzato e qualunque, sottopone il linguaggio (e la griglia, su cui appare la parola del suo testo) a una serie di rapidi montaggi; in presenza di immagini immediatamente “leggibili”, si sente ancor più la velocità del montaggio di Bernard. Vedere Film for Untitled Viewer significa diventare assolutamente consapevoli di quanto profondamente lo spettatore rimanga al buio: il film termina con una sola parola, “US“, ma è impossibile sapere con certezza se tu fai parte di questa pluralità. In entrambi i casi, è uno dei pochi film che conosco che tratta il suo pubblico come se fosse completamente eterogeneo.

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Film for Untitled Viewer rende evidente la sfumatura alla base di tutti i film di Bernard: in una società linguistica, non c’è ritorno all’Eden, quindi il linguaggio – sia come lingua che come immagine indicizzata, con la sua ovvia dimensione linguistica (ad esempio, quella è l’immagine di un naso o di un volto?) – deve essere accolto, poi stirato e ricompattato per vedere in che modo possiamo guardarci attraverso e intorno a esso.

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Hollis Frampton, A Pentagram for Conjuring the Narrative (1972): “Ad oggi, la narrazione sembra essere assiomaticamente inevitabile”. La preoccupazione non è qui con la storia o più profondamente con la disposizione ben riuscita di materiale drammatico, ma con la presenza in tempo reale di “una narrazione razionale, tale per cui si possa perfettamente e interamente rendere conto di ogni termine della serie, insieme alle sue posizioni, durata, partizione e riferimento.” (Frampton lo chiama Teorema di Brakhage)

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Se la narrazione è inevitabile – e sono propenso a concordare sul fatto che, al momento della stesura di questo scritto, rimane tale – allora dove esiste in relazione al film? I film di Bernard sono in un certo senso études per la memoria, esercizi volti ad aiutarci a capire meglio come e perché conserviamo e ricordiamo un’immagine piuttosto che un’altra. La nuova sostanza che danno a un insieme di relazioni esiste solo per la durata della proiezione; dopodiché mi ritrovo costantemente abbandonato a una sensazione di totalità impossibile da descrivere – cioè, a ogni immagine viene concessa la piena libertà della sua piena differenza, un processo in cui è raro e strano imbattersi.

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I film di Bernard indicano niente di meno che un nuovo orizzonte per il cinema. Accettando la potenziale-differenza in ogni immagine cinematografica, ora possiamo liberarci dalle catene che hanno imprigionato il cinema fin dagli albori, e sicuramente dall’avvento del suono. Intendo, ovviamente, la forza omogeneizzante di ventiquattro fotogrammi al secondo. Ora possiamo immaginare un film fondato sulla differenza assoluta, anche a questo livello elementare, che sfreccia fra le frequenze dei fotogrammi sia in fotografia che in proiezione, esplorando finalmente e completamente le possibilità ritmiche e relazionali a disposizione delle immagini in movimento.

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Da Teneri bottoni di Gertrude Stein:

Una caraffa, cioè un vetro cieco

Una specie in vetro e una parente, una lente e niente di strano un singolo colore ferito e un arrangiamento in un sistema volto a indicare. Tutto questo e non ordinario, non disordinato nel non rassomigliare. La differenza si sta diffondendo.

[L’articolo originale è pubblicato al seguente link: https://cinema-scope.com/features/implications-of-a-totality-frames-for-the-films-of-joseph-bernard/ trad. italiana Riccardo Re, revisione Stefano Miraglia]

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